'L'Africa non è nera' - Una lettura complice e emotivamente intensa
di Paolo Ferruzzi
Una lunga scala sale verso il ponte della nave già stracolmo di una fiumana di corpi e bandiere e canti eccitati e Francesco la sale stringendo forte a se il biglietto di terza classe Napoli-Massaua. Francesco è uno dei tanti che parte verso una terra lontana con sogni immaginosi e propositi concreti. Verso l’Africa delle cartoline di Regime per portarci le zolle della propria terra e quei prodotti che nelle zolle della propria terra conoscono dar frutto come la “vide del Piave” e grano e pannocchie e radicchi dell’altopiano. E l’Africa per Francesco, come per tutti gli altri, è nera solo nelle canzoni cantate a squarciagola dai soldati che del nero conoscono solo il colore delle proprie camice o dell’immaginata ragazza dell’Abissinia.
E’ un’Africa bianca quella che quegli occhi vedono nella luce abbagliante, è bianca nella sabbia che fiancheggia il lento navigare, è bianca nell’uva in stracolmi cesti offerti, è bianca nei minareti aguzzi e nelle piccole case allineate lungo la banchina e bianca nel palazzo del Governatore e bianca nel bianco dell’arcipelago delle isole Dàhalac. Come può essere un’ Africa nera quella che percorre Francesco su l’auto per raggiungere Asmara lungo una strada disseminata di operai che gridano i nomi delle loro città: “Napoliii, Genovaaaa, Bariii”?.
E non è ancora nera l’Africa che incontra Francesco davanti al bel Forte Baldissera, l’ospedale Regina Elena, il teatro Asmara, la cattedrale lombarda, il minareto della moschea, le torri della chiesa ortodossa, il palazzo del Governatore, l’albergo Italia, l’ufficio Postale. I villini con le statue romane e i cancelli di ferro battuto. Nessuna giustificazione trovano questa varietà e originalità di edifici dell’essere proprio li nella terra d’Africa, dove Francesco trova lavoro e la fortuna sognata senza, in realtà, conoscere l’Africa nel suo essere e nel suo profondo.
Con un ribaltamento di piano prospettico Paola Pastacaldi, a pagina 29 di questo stupendo suo romanzo, ci riporta dentro le viscere profonde ancestrali di una Terra che non può essere fatta e detta nostra e lo fa con una immagine che sibila improvvisa in una notte stellata. E’ un’immagine che ti ammanta di tremore e lo fa attraverso sagome di scimmie che camminano in colonna dirette chissà dove alte e robuste da far paura. Che circondano il camion fermo nel mezzo della strada battuta. Hanno denti lunghi come zanne e fissano l’uomo bianco immobile sul predellino come si guarda uno straniero e niente può riportare quell’uomo alla bellezza delle stelle che segnano la magia della volta africana. Il fiato delle iene e gli occhi che brillano la notte e il latrare dei cani e ancora quelle scimmie che si avventano sulle ruote per tentare di svitarne i bulloni. Paura che ti avvolge e attanaglia; risalire sul camion e avviare il motore e fuggire lontano e tutto non è più come prima.
Taglio netto questo che magistralmente l’autrice dà a una Terra proposta in’immagine falsa come cartolina edulcorata e riporta il lettore, oramai complice e partecipe, dentro un’Africa nera delineando sempre più quella demarcazione netta tra chi africano è e chi non lo potrà mai essere. Un mondo che non poteva né mai avrebbe potuto far parte di quella folla affollata sul ponte di quella nave come non lo sarà e potrà essere per i figli di quelli che avevano inteso quel mondo come un mondo che non poteva, né mai avrebbe potuto appartenere loro e che non riusciranno a immaginare oltre “la sottile linea della diversità” e nella “stessa linea che segna i palmi rosati delle loro mani dal colore scuro” .
Paolo Ferruzzi