«L’italiano si studia dall’Asia all’Africa»
di Letizia Tesi, Corriere Canadese on line
A Toronto ce l’ha portata la sua grande passione, lo studio della linguistica. È dal 1990 che la professoressa Librandi, docente dell’Orientale, viene in Canada per partecipare a convegni e per insegnare italiano.
All’inizio il tramite è stata una collaborazione scientifica fra il professor Francesco Bruni, suo maestro, e il professor Clivio, che le permise di trascorrere un semestre alla York University dove insegnò linguistica italiana. Negli anni il legame con il Canada si è esteso anche all’Emilio Goggio Chair e alla University of Toronto, dove nel 1998 la professoressa Rita Librandi ha insegnato per un altro semestre. Due anni fa, poi, l’Università Orientale di Napoli ha stipulato una convenzione con il Dipartimento d’Italianistica della UofT, estesa anche al St. Michael’s College e al Centro studi di letteratura comparata, che prevede anche scambi fra studenti e professori.
In queste settimane la professoressa Librandi, che sta pubblicando un libro per il Mulino intitolato “Letteratura religiosa e comunicazione ai fedeli”, è a Toronto per insegnare lingua e la letteratura religiosa medievale a studenti di dottorato. «Stiamo sperimentando un corso nuovo: le prime tre settimane di lezione sono fatte in presenza, poi gli studenti scriveranno un saggio e verranno assistiti dal docente a distanza, attraverso e-mail e Skype».
L’Orientale è un ottimo osservatorio per valutare l’interesse degli studenti stranieri nei confronti della nostra lingua. Che cosa emerge?
«Sta cambiando qualcosa nel mondo e forse l’Occidente dovrebbe prenderne atto in modo più chiaro. Asia e Africa si stanno affacciando nell’organizzazione politica ed economica del mondo occidentale e per riuscire a conquistarsi uno spazio investono sullo studio e sulla ricerca molto più di quanto non faccia l’Europa. La presenza della Cina ormai è fortissima dovunque in Europa, Italia compresa. E sta cambiando qualcosa anche per quanto riguarda l’interesse nei confronti della nostra lingua. Escludendo il Canada, che è un caso particolare vista la massiccia presenza dei nostri connazionali, l’interesse per l’italiano è sempre stato legato ad ambiti specifici come la musica, l’arte, il design e la storia. Oggi, però, si studia l’italiano anche perché si sono sviluppati nuovi scambi commerciali. In Vietnam, per esempio, all’università di Hanoi, arrivano circa 200 studenti l’anno che vogliono imparare la nostra lingua perché sul territorio ci sono molte aziende italiane». In Italia, però, c’è un’erosione costante e pericolosa dei fondi destinati alla cultura e alla promozione della nostra lingua all’estero. Perché?
«Nei confronti della lingua italiana all’estero c’è sempre stata una politica miope e dispersiva in Italia. Francia e Germania, per esempio, hanno sempre investito molto sugli istituti di cultura, in Italia invece i fondi si disperdono in mille rivoli. Credo che gli Istituti italiani di cultura andrebbero sostenuti come unica struttura deputata a rappresentare all’estero la nostra lingua e la nostra cultura. Quando si vuole individuare un ente che rappresenti la diffusione e l’insegnamento delle lingue straniere nel mondo in Inghilterra si pensa al British Institute, in Germania al Goethe e in Francia al Grenoble. Sono tre istituzioni sicure. In Italia invece gli Istituti italiani di cultura vivono stentatamente perché il governo disperde i suoi contributi sovvenzionando molti enti. Perché non riusciamo a coordinarli in modo unitario? Forse perché l’Italia pecca di un difetto di intrinseco individualismo. Manca un senso di forte unitarietà che ci faccia dire: prima di tutto deve valere l’affermazione del nostro Paese».
Come giudica l’università italiana?
«È un problema enorme. Credo che il sistema italiano continui ad avere punte di grande eccellenza. Aver conservato il sistema statale è stato positivo perché ha permesso alla scuola di essere un modello forte in grado di garantire che non ci fossero piccole sacche privilegiate di eccellenza da una parte e dall’altra solo un mare di aurea mediocritas. Ma anche qui c’è una grande dispersione e un andare avanti sulla base della buona volontà dei migliori. Accade spesso, quindi, che dalle nostre università escano studenti bravissimi, che però poi sono costretti ad andare all’estero perché da noi non trovano spazio. Non c’è una struttura che garantisca un funzionamento stabile, una sicurezza continua e manca anche la possibilità di concentrare i fondi di ricerca evitando gli sprechi». Mi può fare un esempio?
«Dopo la riforma del 3+2 sarebbe stato sano istituire la frequenza obbligatoria, ma su questo aspetto hanno glissato tutti i ministri perché non abbiamo strutture adeguate ad accogliere gli studenti. Mancano le aule, i punti di assistenza informatica, gli alloggi universitari. Possono sembrare aspetti materiali, ma sono cose, invece, che fanno l’università. Pensi ad una biblioteca come la Robarts della UofT, alla possibilità di consultare in rete tutti i cataloghi, di vivere nel campus a contatto con studenti e professori: sono aspetti che aprono la mente e migliorano la vita dello studente universitario».
La riforma Gelmini porterà dei miglioramenti?
«Questa riforma ha un unico difetto: che non cambierà niente. Per tagliare davvero gli sprechi bisognerebbe avere il coraggio di chiudere le facoltà periferiche che non sono in grado di fornire un titolo di qualità. In Italia c’è un’università quasi per ogni campanile. Non ha senso. Ma non ci sarà mai un governo che avrà il coraggio di prendere una decisione così impopolare. Almeno, però, si potrebbe fare una selezione come in Nord America, dove ci sono i college e le grandi università. Se a questo si aggiungono i finanziamenti incredibili che il governo Moratti e quello Gelmini hanno dato alle università telematiche, che sono sorte come funghi e che danno titoli immaginari, si spiega perché studenti come la mia più brava allieva, che sta pubblicando un’edizione critica importantissima del più antico testo in volgare di medicina, è costretta ad andare in Francia. In Italia non trova nessun assorbimento. Per lei non ci sono fondi, ma per un progetto telematico sì».
Recentemente i professori universitari sono stati bersaglio di un linciaggio mediatico. Cosa risponde a chi vi chiama fannulloni?
«Sul piano culturale è una forma di populismo, su quello politico una denigrazione sistematica mirata a insinuare l’idea che tutto il sistema pubblico, su cui si è fondata l’Italia finora, debba essere demolito. Non nego che nell’università ci siano professori assenteisti, ma ripeto spesso che l’Italia sopravvive miracolosamente grazie a un 30% di persone che lavorano mentre il restante 70% intralcia invece di stare a casa e non dare fastidio. E poi perché non mostrare mai i lati migliori? La stampa estera lo fa. Da noi, invece, vige questa forma di masochismo per cui non esaltiamo mai i nostri aspetti positivi».
Qual è invece lo stato di salute della nostra lingua?
«Non sta male, nonostante i puristi parlino di invasione dell’inglese. Gli apporti delle altre lingue ci sono sempre stati. Il numero di francesismi entrati nel ’700, per esempio, è di gran lunga superiore a quello degli anglicismi che stanno entrando ora, ma si sono assorbiti meglio perché il francese è una lingua romanza e molte parole non si percepiscono nemmeno come prestiti. Se si esamina la lingua scritta, anche quella su Internet, si scopre che i prestiti inglesi più radicati sono quelli di lunga data - come sport, bar, goal - che non si ci sembrano nemmeno più parole inglesi. C’è chi per cattiva educazione si riempie la bocca di termini come welfare, mission, governace, che è puro cattivo gusto, ma nello scambio quotidiano la misura non è così elevata. Il problema della nostra lingua semmai è la scarsa competenza nella scrittura, ma è un problema che non riguarda solo l’italiano. I giovani, infatti, vedono di più e leggono di meno perché al giorno d’oggi c’è una predominanza degli usi orali, come radio e tv. E quando leggono poi lo fanno in rete così la competenza che più regredisce è quella della scrittura accademica di tipo argomentativo».