La mia Etiopia a New York
di Livia Manera, Corriere della Sera, 28 febbraio 2011
«È vero, l’ho visto fare sia a mio padre che a mia madre. È una cosa che ci viene dall’orgoglio forse un po’ esagerato di avere occupato un posto speciale nella storia dell’Africa, e allo stesso tempo dalla volontà di tirarci fuori dal resto del continente», sorride Dinaw Mengestu (pronuncia Dinau Menghestu), uno di quei giovani scrittori pieni di talento e di sensibilità per l’esperienza umana, che l’America ha la capacità di riconoscere al primo libro e trasformare istantaneamente in una star. Quattro anni fa, quando è uscito «The beautiful things that heaven bears» (Le cose che porta il cielo, Piemme), in cui Mengestu raccontava la storia di un negoziante etiope a Washington alla ricerca di un po’ di sollievo alla propria solitudine nell’amicizia con una professoressa americana di storia, il «New York Times» ha scritto semplicemente: «Questo è un grande romanzo africano, un grande romanzo su Washington e un grande romanzo americano». E ora che esce in Italia anche il secondo libro di questo ragazzo di trentadue anni che sembra possedere il segreto della grazia - non solo nella sua prosa levigata e poetica, ma anche nel modo aperto e lievemente distaccato di rapportarsi agli altri - ecco che Mengestu affina il tema di questa «altritudine», che è la libertà e allo stesso tempo il peso di non appartenere né agli uni né agli altri: di essere né bianchi né neri, né africani né completamente americani. Un’«altritudine» che nei suoi romanzi prende la forma di una malinconia costante e pervasiva come una melodia di fondo. E che nella vita di questo scrittore è diventata ciò che gli ha permesso di trasformare gli atteggiamenti razzisti altrui «che ancora oggi mi provocano risentimento e frustrazione», in qualcosa di cui «bisogna essere grati». «Perché alla fine ti formano e ti aiutano ad avere un’idea abbastanza precisa di chi sei. E chi sei è una persona libera e allo stesso tempo consapevole di come ci si sente quando si è intrappolati nei problemi di razza». Il che per uno scrittore che vive in un Paese e in un’epoca multirazziali, può dimostrarsi un’arma formidabile. Sebastião Salgado, lavoratori a Yirgha Cheffe, Etiopia Ecco di cosa parlaLeggere il vento (traduzione di Isabella Vaj), in cui la voce narrante del giovane etiope-americano Jonas Woldemariam racconta il fallimento del proprio matrimonio con la giovane Angela, avvocato in uno studio legale di New York, parallelamente alla storia del fallimento del matrimonio dei genitori, a cui prima di lasciare l’Etiopia un amico aveva consegnato la chiave, secondo lui, dell’integrazione: «Il primo passo per diventare americani è comportarsi come se si sapesse già tutto. Le due parole più importanti in inglese sono 'è naturale'». Leggere il vento parla nella necessità altrettanto naturale di «inventare storie» per riempire «i buchi del passato», e di conseguenza della capacità della letteratura di restituirci l’essenza e le conseguenze psicologiche di un dramma come quello dell’emigrazione dai Paesi africani, che altrimenti rimarrebbe confinato alla brutale - e oggi così attuale - realtà della cronaca. Ma parla anche del bisogno di uno scrittore «né bianco né nero» come Mengestu, che appena è stato adottato dall’ambiente letterario di New York se n’è venuto a vivere a Parigi dove non conosceva nessuno e nel giro di tre anni si è sposato con una ragazza francese e ha avuto due figli, di capire finalmente la traumatica emigrazione dei suoi genitori di cui nessuno, in casa, voleva parlare: non il padre fuggito nel ’78 dopo avere visto un fratello morire in carcere nel periodo del «terrore rosso» seguito alla rivoluzione, non la madre i cui fratelli erano stati anche loro arrestati, che ha raggiunto il marito in Illinois nell’80 insieme ai due figli. Dinaw Mengestu Mengestu affronta questo tema così universale e personale, attraverso Jonas che, lavorando in un centro per immigrati a New York, non si fa problemi a lavorare di fantasia per mettere in bella prosa le richieste di asilo dei suoi assistiti, in cui legge ogni giorno tristemente che «il Paese, il villaggio, la città da cui vengo, dove sono nato, dove sono vissuto per quarantacinque, sessant’anni è stato conquistato, occupato, bombardato, incendiato, distrutto, ridotto in macerie e io, la mia famiglia mia sorella, cugina, zia, zio, nonni siamo stati arrestati, fucilati, stuprati, imprigionati, costretti a confessare, torturati perché confessassimo...». «Quando ci pensi bene, è sempre la stessa storia -, dice a Jonas il capo del centro rifugiati di New York -. Quello che facciamo noi è solo cambiare il nome del Paese, o la religione, ma alla fine non fa molta differenza». Quanta superficialità c’è in questa affermazione in cui è facile per chiunque riconoscersi. Un libro come Leggere il vento è lì per dimostrarci tutta la nostra miopia: e dirci non solo che fa differenza, ma che nessuna gioia, nessuna pena, nessuna umiliazione o frustrazione o redenzione, dacché esiste la letteratura, è o sarà mai uguale a un’altra.