Un viaggio nelle memoria familiare e coloniale italiana: 'L'Africa non è nera' e 'Khadija'
di Paola Pastacaldi, 13 gennaio 2014
Sono nata cresciuta in Veneto, che ho lasciato nel 1980 per fare la giornalista a Milano. Non avevo mai pensato né voluto scrivere romanzi. Ma ho sempre coltivato una curiosità, non soddisfatta, sul passato della mia famiglia, su cui mia madre era stata molto reticente. Mio padre era meticcio, figlio di una indigena di Harar e di un livornese, vissuto tra il 1980 e il 1921 ad Harar, dove è sepolto. Ho avuto in realtà ben due nonni vissuti in Africa, uno appunto in Etiopia, l’altro in Eritrea, durante il fascismo. Il motivo che mi ha spinta a scrivere, come spesso accade, è proprio ciò che non conoscevo, il desiderio di colmare un vuoto che riguardava la mia famiglia e, quindi, di conoscere meglio ciò su cui ho dovuto fantasticare sin dalla prima infanzia, le mie origini così lontane. Un passato coloniale che era facile dimenticare, perché così è stato per gli italiani, un passato rimosso per le sue implicazioni con il fascismo. Ma l’Africa è anche il Paese di mia nonna e di mio nonno paterni e di mio padre, e poi anche in parte dell’altro nonno. Sono stata costretta a sognare l’Africa, non avendo molte informazioni su questi miei familiari, ma quella era l’Africa coloniale e precoloniale, difficile da conoscere. Il nonno, di cui porto il nome e che non ho mai conosciuto, perché morto nel 1921, era originario di Livorno ed è vissuto in Etiopia, tra fine Ottocento e i primi del Novecento. Si chiamava Giuseppe Pastacaldi. Anche di lui, mia madre mi ha parlato poco, e quel poco sempre in termini che io giudicavo eccessivamente romanzati e scarsamente attendibili. Ho ricostruito da solq, grazie a dettagliate fonti storiche la sua vita. Questo nonno è vissuto sino alla morte nella bellissima città murata di Harar in Etiopia, musulmana da secoli, all’epoca sotto la sovranità dell’Egitto, attualmente patrimonio dell’Unesco, ma all’epoca nota come la città proibita (http://it.wikipedia.org/wiki/Harar). Il periodo su cui non ho date esatte, penso si collochi tra il 1890 e il 1921, anno certo della morte che conosco grazie alle lettere scambiate alla morte di mio nonno tra il vescovado di Asmara e la mia bisnonna. Giuseppe Pastacaldi, nel periodo che visse ad Harar ebbe come moglie una indigena di una tribù galla di origini nobili di nome Khadija. Il gruppo etnico dei galla rappresentava i due terzi della popolazione etiope. Allora si diceva “galla”, una parola che ha poi preso un significato dispregiativo; ma sarebbe più esatto dire “oromo” (http://it.wikipedia.org/wiki/Oromo). Khadija, mia nonna, era dunque una oromo di religione musulmana, che si è convertita poi al cristianesimo con il nome di Maria. Ritengo che la conversione di mia nonna sia legata alla presenza di un eminente cappuccino e vescovo francese, Marie-Elie Jarosseau, divenuto vescovo nel 1897 nel vicariato apostolico dei Galla in Harar, che si estendeva allora sui due terzi a Sud dell’Etiopia, ed era molto ostile ai cattolici (http://fr.wikipedia.org/wiki/Marie-Élie_Jarosseau). La diocesi di Harar era assai turbolenta per la presenza di copti e di una minoranza di cattolici in lotta tra loro, oltre ai musulmani. Père André, stimato per la sua grande cultura e il suo prestigio, fu chiamato dal ras Makonnen, cugino prediletto dell’imperatore Menelik, ad educare il figlio di 4 anni, che sarebbe divenuto poi imperatore d’Etiopia, il futuro Negus Hailé Selassié. Le père André, Abba Andreas in amarico (la lingua ufficiale dell’Etiopia, derivata dall’antichissimo ge’ez, anche se le etnie sono più di ottanta e ognuna ha la sua lingua, fu autore di numerosi e importanti saggi in francese sulla lingua e sulla grammatica oromo, sulla regione di Harar e la vita difficile dei cattolici in quell’area (http://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_ge'ez and http://it.wikipedia.org/wiki/Lingua_amarica). Alcuni di questi libri, insieme ad altri, sono stati da me consultati e sono conservati alla biblioteca Nazionale Braidense di Milano. Come mai Giuseppe Pastacaldi finì ad Harar nell’Ottocento? Non era un esploratore e nemmeno un avventuriero, era uno studente dell’Università di Pisa, quando gli capitò di sfidare e combattere in duello un compagno di corso. Ebbe la meglio e lo uccise. Per sfuggire alla giustizia italiana, la famiglia lo imbarcò a Trieste su una nave diretta nello Yemen, dato che la sorella viveva ad Aden, perché aveva sposato il viceconsole italiano Giovanni Lang, lì dal 1886. Ritroviamo mio nonno qualche anno dopo in Abissinia, l’attuale Etiopia, in Harar, antichissima citta Stato, sita sulla cima di un monte della parte orientale dell’altopiano. Fondata tra il Settimo e l’Undicesimo secolo, fu capitale di un regno indipendente e un importantissimo centro religioso e culturale dell’Islam fino al 1520 (http://whc.unesco.org/en/list/1189). Per inquadrare il periodo storico in cui visse il nonno e i rapporti con l’Europa, ricordo che tra il 1895 e il 1896 fu combattuta la Prima Guerra di Abissinia tra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia, a causa del trattato truffa di Uccialli, che rendeva l’Etiopia un protettorato dell’Italia a insaputa degli Etiopi e di Menelik (http://www.paolapastacaldi.it/l-africa-non-e-nera-foto.php). Il 1 marzo 1896 ad Adua i soldati etiopi di Menelik vinsero contro gli italiani la battaglia di Adua, che fu la più grande vittoria di un popolo africano contro un popolo bianco, un’onta per gli italiani che non fu mai dimenticata. Mussolini, al governo in Italia dal 1922, nel 1935 volle vendicare Adua con la seconda guerra d’Etiopia che durò però solo sette mesi, ma che vide l’uso di gas chimici anche contro la popolazione civile, argomento che gli italiani ignorarono per molti anni ((http://www.ilcornodafrica.it/mc-aduapalermo.htm). Gli italiani, non hanno affrontato ed elaborato a lungo il loro passato coloniale, erroneamente convinti di essere stati “brava gente” verso le popolazioni indigene. Grazie ai numerosi scritti del giornalista storico Angelo Del Boca il passato coloniale in tutta la sua efferatezza è stato riportato alla luce (http://it.wikipedia.org/wiki/Angelo_Del_Boca). Ma torniamo alla nostra storia etiope precoloniale. Ad Harar il poeta francese Arthur Rimbaud aveva vissuto tra il 1880 e il 1883, facendo il commerciante di schiavi per Menelik. Studiava l’arabo e il Corano e conviveva con una indigena. Di questo periodo ci sono le interessantissime lettere che scrisse alla madre. La storia di Harar è molto affascinante e complessa. Harar, la città proibita, era nota per una particolare ostilità verso gli stranieri ed era rimasta inesplorata sino al 1850, quando l’esploratore e orientalista inglese Richard Francis Burton (1821-1890, scopritore dei Grandi Laghi, insieme a John Speke, e delle sorgenti del Nilo e già traduttore di Le Mille e una notte) riuscì, primo europeo, a visitarla, travestito da commerciante arabo. Di questo viaggio ci ha lasciato un ricchissimo e interessante diario di ottocento pagine (First Footsteps in East Africa Or an Exploration of Harar, Londra, Longman, Brown, Green and Longmans, 1856) che ho in parte letto e poi tralasciato per la difficoltà di capire l’inglese dell’Ottocento (http://it.wikipedia.org/wiki/Richard_Francis_Burton). Harar divenne in breve tempo la Roma dell’Africa; vi transitavano commercianti, esploratori, diplomatici, storici e politici sia inglesi, che tedeschi e francesi. Circondata da cinque antichissime mura, cinque sono i pilastri per l’Islam come gli obblighi fondamentali di ogni musulmano, città dalle novanta moschee, nota per le sue (http://www.repubblica.it/2007/06/sezioni/ambiente/uomo-iene/uomo-iene/uomo-iene.html) che avevano la funzione di spazzini, ambita dai commercianti, in quanto sulla rotta dell’antica via degli aromi e soprattutto terra di pregiato caffè (http://www.treccani.it/enciclopedia/harar_(Enciclopedia-Italiana). Molti paesi europei erano interessati a spiare i movimenti dei Ras etiopi, i governatori dell’imperatore Menelik. Coltivavano tutti il sogno di un’Africa da conquistare, perché - pensavano - avrebbe regalato grandi e facili ricchezze. Leggendo i libri di storia e le usanze degli imperatori si ha il quadro di un impero medioevale di straordinario fascino, i suoi imperatori discendenti da Re Salomone e della regina di Saba, l’imperatore Menelik, la Regina Taitù Batùl che era presente nelle battaglie col suo cavallo, che divenne molto popolare in Italia, il Negus Neghesti Hailé Sélassié (1892-1975), figura di notevole spicco che cercò di portare l’Etiopia a dialogare con le grandi potenze europee. In realtà la storia di Hailé Sélassié è piuttosto complicata; figlio di ras Makonnen, il generale prediletto e cugino di Menelik, allevato a corte, già grandicello si trovò a dover arginare le mire di Lig Jassu, nipote di Menelik e futuro erede designato al trono. Ligg Jasu era molto amato dalla regina Taitù che lo viziava concedendogli droghe e donne, tanto che già sedicenne si ammalò di sifilide. Il giovane Ligg Jasu era anche molto ambizioso e coltivava il progetto di trasformare l’Etiopia in un impero musulmano. Il clero etiope, preoccupato di perdere il potere, con l’aiuto di ras Tafari Makonnen Woldemikael, lo imprigionò, togliendogli la successione. Ras Tafari divenne così Hailé Selassié, imperatore al suo posto, e fu protagonista di una storia lunga e tormentata. Ad Harar, diceva mia madre, il nonno svolgeva funzioni diplomatiche per l’Italia. Ho consultato alla Biblioteca Diplomatica della Farnesina a Roma, dove sono conservati i documenti del Ministero delle Colonie, il dossier su mio nonno. Ho trovato e letto le lettere intercorse su di lui tra il diplomatico e ministro plenipotenziario in Etiopia, Federico Ciccodicola (1897) e il Ministro delle colonie e governatore dell’Eritrea, Ferdinando Martini, autore di vari libri tra cui il noto Nell’Affrica Italiana. In realtà il nonno perse l’incarico ufficiale di diplomatico a causa di una partita di settecento cammelli per gli inglesi andata in fumo. Ma continuò a fornire informazioni, come si evince dalle numerose citazioni nei libri del governatore Martini. Con Khadija Maria - con cui ha vissuto sino alla morte, dimostrando un notevole attaccamento alla famiglia, non usuale all’epoca - mio nonno ha avuto sette figli, l’ultimo era mio padre che, quando mio nonno morì nel 1921, aveva appena tre anni. Tale era l’amore per quella terra che Giuseppe Pastacaldi vi ritornò sempre, sempre innamorato di Khadija Maria, nonostante numerosi viaggi in Italia. Tanto che quando morì fu sepolto ad Harar nel cimitero cattolico. Ho cercato la sua tomba ad Harar, ma numerose razzie – si dice di di musulmani - hanno distrutto le tombe cattoliche, lasciando sparse tra l’erba alta e secca solo le lapidi spezzate dell’Ottocento e le tombe svuotate, con le ossa dei morti sparse e abbandonate a terra. Nel piccolo e suggestivo cimitero di Harar ho incontrato solo gruppi di bambini sorridenti in compagnia delle loro magre caprette: masticavano qualche fogliolina di chat o chata edulis, come tutti ad Harar, dove si produce in abbondanza sulle colline, l’erba euforizzante che reprime la fame, un tempo sacra per la preghiera dei musulmani, che oggi ha sostituito le ottocentesche coltivazioni di caffè, diventando una redditizia produzione del Governo etiopico. Quando mio nonno fu in punto di morte, nel 1921, Khadija-Maria gli chiese se poteva rifugiarsi in Italia con i suoi figli. Una richiesta affatto casuale che trova ragione nel diritto e nelle usanze delle donne, dare cioè ai figli l’educazione del padre in qualunque caso, anche in caso di abbandono del padre, come accadde in Eritrea durante il fascismo. Ma mio nonno le rispose che era meglio di no, dimostrando una notevole lungimiranza, in quanto – le disse - stavano arrivando tempi che non sarebbero stati favorevoli alle razze di pelle scura o miste. Le leggi razziali di Mussolini sono poi state varate nel 1938 (http://www.raiscuola.rai.it/articoli/le-leggi-razziali-del-1938-storie-e-testimonianze-gli-ebrei-e-litalia/8119/default.aspx). Una volta rimasta sola, mia nonna decise comunque di trasferirsi ad Asmara, in Eritrea. Fece un lungo viaggio in cammello con i figlioletti ancora piccoli. Possiamo immaginare con quanti pericoli da superare. Ciò che la spinse a spostarsi a quei tempi con i rischi che comportava un viaggio da Harar ad Asmara fu molto probabilmente il forte desiderio di far studiare i figlioli meticci secondo la cultura del paese d’origine del padre, poiché ad Asmara c’era l’unica scuola italiana per bambini nati da unioni miste. Giuseppe Pastacaldi, come risulta dagli scritti del Ministro Ferdinando Martini, fu anche corrispondente per la società coloniale di Aden, fondatore di quella di Mombasa e direttore del servizio trasporti della ditta Bienenfeld. Per questo e altri motivi, Giuseppe Pastacaldi è da considerarsi tra i primi pre-colonialisti italiani e la sua figura rappresenta un anello interessante della storia che precede il fascismo. La sua presenza ad Harar è spesso segnalata nei libri del Ministro Ferdinando Martini, ma in particolare Nell’Affrica Italiana, impressioni e ricordi del 1895 (Fratelli Treves, Milano, 1925), come profondo conoscitore dell’Africa Orientale. Amico di Ottorino Rosa, già amico di Rimbaud, anche lui corrispondente per la ditta Bienenfeld, e autore di interessanti scritti. Giuseppe Pastacaldi è citato anche nel Bollettino Società Africana d’Italia Dall’Harrar. La Missione per la delimitazione del confine tra Somalia Italiane e l’Etiopia 1910, e nel libro del capitano esploratore Enrico Alberto d’Albertis Una Gita all’Harrar (Fratelli Treves Editori, Milano, 1906) La storia che in famiglia mi è stata tramandata e che è servita come pretesto per l’inizio del mio secondo romanzo, è che la nonna, appartenente ad una famiglia ricca e nobile, fosse stata prima offerta in dono (diremmo come omaggio all’autorità di un italiano) a mio nonno. Il nonno non volle accettare questo dono e mia nonna fuggì a cavallo, tornando dalla sua famiglia. Ma dopo questa fuga si innamorò di questa giovanissima e ardita galla e decise poco dopo di prenderla come moglie. Ovviamente, senza matrimonio che all’epoca non si usava fare con una donna indigena. Con lei, però, ha vissuto sino alla morte: ma – raccontò lei stessa a mia madre – ad ogni viaggio che faceva da solo in Italia, Khadija-Maria temeva di non rivederlo più. E’ invece è sempre tornato da lei ed è morto ad Harar. Tutto ciò che ho sin qui descritto ha fornito materiale per costruire il mio primo romanzo. In Khadija (peQuod, Ancona 2005) ho raccontato il lungo viaggio di un giovane italiano dell’Ottocento (http://www.paolapastacaldi.it/khadija.php). L’ambientazione è assolutamente autentica e frutto di studi storici e ricerche in ogni più piccolo dettaglio. Ho però anche camminato a lungo per i vicoli antichi di Harar, che oggi le guide chiamano manzonianamente “del perdono”, tanto sono stretti. Ho studiato quel periodo, leggendo moltissimi testi, tra i quali, i lavoro di Enrico Cerulli, diplomatico e linguista e governatore di Harar. Ho letto alcuni preziosi rapporti dei Bollettini della Società d’Esplorazione Geografica e Commerciale di Milano sugli eccidi avvenuti vicino ad Harar, in particolare quello del conte Gian Pietro Porro di Milano 1886. Ho recuperato al Corriere della Sera il Dono agli abbonati del dicembre 1891 a firma di Edoardo Scarfoglio, poeta, scrittore e giornalista, marito di Matilde Serao, una delle massime scrittrici dell’Ottocento, intitolato Viaggio ad Harar, composto di quattro bellissime pagine corredate di foto significative (http://www.paolapastacaldi.it/document.php?DocumentID=317). Ho visto ancora sui vetrini le foto antiche depositate alla Società Geografica di villa Celimontana a Roma. Ho, infine, viaggiato idealmente con il mio personaggio, ricostruendo il percorso da Zeila, nella Somalia Britannica, porto del Mar Rosso, sino Harar, con pazienza infinita, seguendo passo passo i luoghi del viaggio sulle cartine d’epoca dell’esploratore di Pavia, Luigi Robecchi Bricchetti e dell’etnologo austriaco, Philipp Paulitschke. Non ho parole per evocare l’intensa emozionante bellezza della storia legata all’Etiopia antica e alla sua religiosità, già splendidamente descritta tra gli altri da Ryszard Kapuscinski in Il Negus. Splendori e miserie di un autocrate (Feltrinelli, 2003). Posso dire che ho camminato nelle strade di Harar e ho fotografato decine di volti di donne. Bellezze che sembrano portarci alle origini del mondo, con una bellezza quasi biblica. I loro tratti fisici sono quelli della protagonista del mio romanzo. Una donna che ha una sacralità diversa da quella della protagonista di Tempo di uccidere, il romanzo che Ennio Flaiano scrisse nel 1947 e ambientato durante l’invasione d’Etiopia. Khadija condurrà il protagonista italiano a scoprire la pietà e un modo diverso di essere uomini e non solo invasori, in un viaggio ottocentesco, ma profondamente novecentesco nelle scelte emotive che hanno per tema l’incontro dell’individuo con un mondo totalmente diverso dal suo, quello dell’Africa. Simbolicamente alle origini di quello che sta accadendo oggi e che tanto ci mette in difficoltà. Ad Asmara durante il fascismo L’Africa, quasi un segno, un destino per la mia famiglia, è stata protagonista anche nella vita del nonno materno, Francesco Bellio, originario di un piccolo paese della provincia di Treviso. Francesco aveva costruito le prime strade asfaltate intorno a Verona e al lago di Garda, ma nel 1935, in pieno fascismo, quando la fame tormentava il Veneto, dovette cercarsi un altro lavoro per sfamare la sua famiglia e anche quella di suo fratello e andò in colonia, ad Asmara. Ricordo che l’Italia sognava le colonie già dalla Conferenza di Berlino, detta anche dell’Africa Occidentale del 1884, quando le grandi potenze d’Europa si spartirono alcuni territori e l’Italia fece la parte della comparsa rimanendo in disparte. L’Italia si rifece negli anni a seguire e nel periodo in cui è collocato il romanzo aveva come colonie africane l’Eritrea già dal 1890, la Somalia dal 1908, la Libia, strappata all’impero Ottomano nel 1911, e l’Etiopia italiana, che sarà conquistata e annessa con l’omonima guerra nel 1936. Mussolini proclamò poco dopo, appunto sempre nel 1936, la nascita dell’Impero Coloniale Italiano (http://www.paolapastacaldi.it/l-africa-non-e-nera-foto.php) o Africa Orientale Italiana, che cessò di esistere a fine novembre 1941, con la sconfitta subita contro gli Alleati, durante la Seconda Guerra mondiale (http://www.treccani.it/enciclopedia/africa-orientale-italiana/). La presenza degli italiani nelle colonie assunse i tratti di una immigrazione di massa soprattutto in Eritrea ad Asmara. Soprattutto dal Veneto, dal Friuli e dal Piemonte, ma anche dal Mezzogiorno. Detta per la sua architettura la “Piccola Roma”, Asmara si trova a duemila e trecento metri di altitudine, sull’acrocoro che scende ripido e suggestivo sino a Massaua, la perla del Mar Rosso. Per il fascismo non si trattava di emigrazione, dato che l’Eritrea era la colonia primigenia ed era perciò considerata come una seconda patria. La prima colonia risale ad un acquisto fatto dalla compagnia Rubattino nel 1890 nella Baia di Assab e del porto di Massaua. Tanti italiani hanno vissuto ad Asmara già nel 1890, quando per raggiungere l’altopiano l’unico mezzo era il dorso di un mulo. In pochi anni Asmara divenne una città totalmente italiana nella sua architettura. Ammirata in tutto il mondo e tutt’ora conservata e nella lista dei Patrimoni Culturali dell’Umanità (http://whc.unesco.org/en/tentativelists/2024/). Il nonno lasciò, dunque, Cendon di Silea, in provincia di Treviso, nel 1935 in pieno periodo fascista, si imbarcò su una nave da Trieste e sbarcò nel porto di Massaua e poi in auto raggiunse Asmara, con l’obiettivo di costruire strade per la ditta milanese Puricelli. Come moltissimi altri italiani, in quel periodo, il lavoro in colonia era legato alla costruzione di strade oppure alla guida dei camion come autisti. La colonia si stava sviluppando velocemente e non solo architettonicamente, ma anche con un’imponente rete stradale che sarebbe poi servita per una maggiore e più facile penetrazione degli italiani in quella che sarebbe a breve diventata l’AOI, l’Africa Orientale Italiana. Ad Asmara non c’erano ancora strade degne di questo nome, ma solo piste di terra battuta impraticabili e piene di buche. La guerra d’Etiopia era alle porte e le truppe dovevano transitare per Massaua per invadere poi l’Etiopia (http://www.raistoria.rai.it/articoli/fascismo-la-conquista-delletiopia/7726/default.aspx). Le strade erano una priorità su cui il governo di Mussolini investì imponenti energie e molto denaro, anche oltre le sue possibilità, cosa che fu tra le cause della crisi del sistema economico coloniale fascista. Mio nonno, una volta sbarcato ad Asmara, ebbe una intuizione lavorativa che gli procurò negli anni un notevole agio economico. Decise di non costruire più strade, ma di appaltare un pozzo. Capì la straordinaria necessità delle centinaia e migliaia di italiani che erano sbarcati in breve tempo nella colonia di avere acqua buona e sana per non ammalarsi. Organizzò un servizio d’acqua casa per casa che poi raffinò negli anni, prima con delle botti trainate da cavalli e poi con numerosi camion Fiat 134, fatti arrivare dall’Italia, assumendo molti autisti indigeni, oltre a vari italiani che decisero di raggiungerlo, in numero anche consistente da Treviso, attratti dai facili guadagni (http://www.paolapastacaldi.it/l-africa-non-e-nera-foto.php). Si diceva allora che un italiano povero in colonia poteva facilmente diventare ricco e un italiano ricco poteva diventare ricchissimo. Nel 1935 Mussolini dichiarò guerra all’Etiopia con l’intento di invaderla. Meritano di essere letti a questo proposito gli articoli di Curzio Malaparte per il Corriere della Sera, con i quali il giornalista scrittore descrisse la partenza dei civili italiani per l’Africa Orientale Italiana a bordo di una nave, che sembrava a questi italiani di origine contadina e umili detti coloni quasi una corriera di paese e che certamente non sapevano nemmeno dove fosse l’Africa nella carta geografica. Ma erano pieni di voglia di lavorare nella terra promessa da Mussolini, quello che il duce chiamò un posto al sole (http://www.paolapastacaldi.it/africa-foto.php). Il 1 aprile del 1941, durante la seconda guerra mondiale, dopo una strenua difesa degli italiani a Cheren, gli inglesi vittoriosi entrano ad Asmara e occupano la città. La colonia cade. Molti italiani fuggono con le Navi Bianche della Crocerossa, circumnavigando l’Africa, dato che il canale di Suez era chiuso. Moltissimi italiani finirono, invece, prigionieri degli inglesi e furono spediti in Kenya (lo stesso Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, morì prigioniero nel 1942 di malaria, in una località vicino a Nairobi, perché non volle abbandonare i suoi uomini, dove è ancora sepolto), in Somalia, in Sud Africa e anche in Australia, per lunghi anni in molti casi. Mi sono stati spesso segnalati titoli di diari di soldati in prigionia o resoconti delle loro fughe, pubblicati privatamente, ma reperibili in piccole biblioteche. Il nonno, grazie al suo lavoro di distribuzione dell’acqua, fu invece trattenuto dagli inglesi ad Asmara per tutto il periodo del Protettorato, dunque sino al 1951 (http://www.paolapastacaldi.it/l-africa-non-e-nera-foto.php). Fu per questo che non ritornò per un po’ di anni in Italia, dove aveva lasciato la moglie, mia nonna, e la figlia, mia futura madre. Mia madre nel 1948 decise di andarlo a trovare. Asmara viveva allora il suo periodo più angoscioso, colpita duramente da attacchi dei banditi locali detti shifta che depredavano e uccidevano gli italiani, distruggendo le loro concessioni agricole. Lo scopo di questi attacchi era quello di ripulire la colonia dagli italiani, in attesa di altra destinazione (che fu poi l’Etiopia), prima della fine del protettorato, che era stata fissata per il 1951. Mia madre, ignara dei problemi gravi che tormentavano la città di Asmara, visse un anno nella ex colonia e conobbe mio padre Leone, il figlio di Giuseppe Pastacaldi, affascinante meticcio educato alla cultura italiana, nato e cresciuto ad Harar, la città di Haile Selassie, ma che per studiare si era trasferito ad Asmara giovinetto. Mia madre lo sposò nel 1950. I suoi racconti, pur stemperati dagli anni vissuti nel Veneto, sono stati sempre conditi da un entusiasmo privo di contorni storici e da me sempre giudicati un po’ fantasiosi, anche se affascinanti (http://www.paolapastacaldi.it/l-africa-non-e-nera-foto.php). La ex colonia, sotto gli inglesi, per una giovane ragazza di provincia, anzi di campagna, aveva assunto contorni da grande città e – io pensavo – che forse non fosse nemmeno tutto vero quello che mia madre mi diceva. Ma non era così. A Milano raccontavo spesso questa storia familiare legata all’Eritrea ad una amica, professore di sociologia all’Università Statale, Franca Pizzini, anche lei autrice di saggi e scrittrice di storie familiari. Fu lei a dirmi che la storia di questo nonno veneto era molto interessante e significativa per un periodo storico ancora poco frequentato e che valeva davvero la pena di studiarla. Non molto convinta, ma stuzzicata e incuriosita da quello che la mia amica sosteneva, mi recai nella Biblioteca del Risorgimento che si trova in via Borgonuovo a Milano e trovai, quasi per caso, l’ultimo libro scritto allora da Barbara Sorgoni, docente di antropologia culturale all’Università di Bologna, sul funzionario coloniale Alberto Pollera (1873-1939), autore di numerosi saggi etnografici, vissuto a lungo accanto alla popolazione locale, che mia madre nominava spesso (Etnografia e colonialismo. L'Eritrea e l'Etiopia di Alberto Pollera 1873-1939). Pollera aveva convissuto con due donne indigene e avuto vari figli, che non aveva abbandonato, ma aveva fatto studiare. Verso la fine della sua vita aveva anche avuto a ridire con il regime a proposito delle leggi razziali (scrivendo una risentita lettera), di cui era stata vittima una sua amatissima figlia, cacciata da un bar perché meticcia. Fu una scoperta illuminante. Capii da quella storia quanto contrastato fosse stato il periodo fascista in colonia e che tutti i racconti di mia madre intorno ai miei nonni avevano una verità storica anche più ampia di quello che lei stessa sapeva. Decisi perciò che valeva la pena di approfondire e di capire sin dove i racconti che hanno nutrito la mia infanzia fossero veri e che retroterra storico avessero. Ricordo che da bambina, piccolissima, scarabocchiavo segni illeggibili su un libro che poi mi fu molto utile e che, quando iniziai la ricerca non ricordavo più nemmeno di avere in casa: si tratta del CHI E’? dell’ERITREA 1951. Dizionario Biografico (Agenzia Regina, Asmara) del giornalista Giuseppe Puglisi, autore anche di molti atri testi. Purtroppo il prezioso archivio di Puglisi è andato smembrato. Le biografie degli italiani e degli eritrei in colonia mi hanno dato molti spunti per il lavoro di scrittura del mio ultimo romanzo. Così come molti altri libri tra i quali la preziosa Guida dell’Africa Orientale Italiana del Touring Club del 1938, una miniera infinita di informazioni coloniali. Giulia Barrera, archivista dell’Archivio di Stato di Roma, è uno degli autori che ho letto con sommo piacere, in particolare il suo saggio intitolato Patrilinearita, razza e identità: l’educazione degli italo-eritrei durante il colonialismo (1885-1934), pubblicato in Quaderni storici dell’Aprile 2002 sotto il paragrafo La colonia: italiani in Eritrea a cura di Alessandro Triulzi (https://www.academia.edu/2195642/Patrilinearità_razza_e_identità_leducazione_degli_italo-eritrei_durante_il_colonialismo_italiano_1885-1934_). Mi fu segnalato dal nipote di Alberto Pollera, con il quale ho a lungo discusso della situazione dei meticci. In questo saggio Giulia Barrera analizza le storie di alcuni italiani autorevoli e il loro comportamento amorevole verso i figli meticci; vengono alla luce temi molto interessanti sulle usanze degli eritrei a riguardo dei figli. Lavoro a cui sono particolarmente affezionata in quanto scoprii, leggendolo, che vi era citato anche mio nonno, Giuseppe Pastacaldi, insieme al funzionario Alberto Pollera, entrambi come esempi di un importante investimento emotivo verso i figli, cosa rarissima all’epoca. Ebbi grazie a lei possibilità di leggere alcune note riguardanti le lettere di mia bisnonna, quando mio nonno morì, a riguardo della cura dei suoi nipoti meticci, tra i quali anche mio padre. Mussolini nel 1938 aveva emanato le leggi razziali con severissime sanzioni a chi aveva rapporti con le donne (la Polizia Africa Italiana perquisiva le case a questo scopo) e questo provocò l’abbandono da parte di molti italiani dei figli meticci avuti dalle donne locali, a loro volta rifiutati anche dagli stessi indigeni, in quanto meticci. L’abbandono dei figli fu una piaga gravissima della colonia, che in parte affronto nel mio romanzo. Ho svolto intense ricerche storiche. Voglio citare la preziosa Biblioteca Africana delle ex colonie di Gian Carlo di Fusignano, che ha dedicato una vita intera a raccogliere documenti su quel periodo (http://digilander.iol.it/africana/). Ho potuto anche visitare il museo di Harar e vedere la raccolta storica di immagini dell’Ottocento, che mi è stata utile per una mostra fotografica, pubblicata poi nel sito del Corno d’Africa (www.ilcornodafrica.it) alla voce Libri e immagini. Lunghe conversazioni, che mi sono state fondamentali per la costruzione della bibliografia, le ho avuto con Irma Taddia, professore ordinario di Storia e istituzioni dell’Africa a Bologna, autore di numerose pubblicazioni su Eritrea ed Etiopia del periodo coloniale. Irma Taddia, che conosceva anche mio padre, mi ha sempre accompagnata e illuminata sui temi più complessi e spigolosi legati a questi due paesi, in un confronto costante sulle tematiche storiche. L’Africa non è nera E’ questo il titolo che ho dato al mio ultimo romanzo. Può sembrare un titolo fuori tempo negli anni in cui assistiamo agli sbarchi da Lampedusa e ai tentativi più o meno riusciti di indipendenza dei vari popoli dell’Africa, alle tragedie delle dittature che talvolta e in modo mostruoso si sviluppano come è accaduto in Eritrea. Oggi abbiamo una nuova consapevolezza ed un maggiore e giusto rispetto verso gli altri, grazie ad una conoscenza delle diverse identità dei popoli, provocata anche dalla forte immigrazione in Europa. Chi può permettersi di parlare di Africa non nera? Certamente nessuno. Ma se la storia che raccontiamo è ambientata nel 1935 in Asmara il titolo assume ben altri significati, anzi una certa complessità provocatoria. Sappiamo ormai che gli italiani non hanno affrontato ed elaborato la loro memoria coloniale. Questo romanzo in qualche modo è uno sguardo disincantato su quel periodo. In questo titolo c’è il succo della storia che racconto e il fallimento del fascismo, del tradimento degli italiani, in altre parole del progetto folle di fare del Corno d’Africa una terra italiana. L’editore che pubblicherà questo romanzo è Mursia, un editore storico, che ha compreso che un romanzo sugli italiani ad Asmara significava raccontare un periodo poco o malamente frequentato, riempendo un vuoto, anche se solo in senso letterario, con una visione più ricca e variegata della pur importante riflessione storica e critica che si è sviluppata negli ultimi vent’anni. Capire e raccontare le cento e mille altre storie che compongono alla fine un’unica storia, ricca di sfumature che sarebbe un peccato ignorare. Il titolo è tratto da un articolo scritto da Curzio Malaparte, quando era un inviato del Corriere della Sera durante la Guerra d’Etiopia, nel 1939. Malaparte voleva rientrare nelle grazie del fascismo, dopo essere stato messo al confino a Lipari, per poi ritrovarsi lì, nell’Africa coloniale, colpito dalla terra d’Africa e dai suoi uomini, gli indigeni, dalla potenza della loro storia. Fu costretto ad abbandonare, in senso letterario, le strette vesti di giornalista per ritornare scrittore, con la grinta e la capacità che sapeva avere nel descrivere ciò che vedeva. Tutto ciò è raccontato con documenti e lettere originali da Enzo La Forgia in un libro di pochi anni fa intitolato Viaggio in Etiopia e altri scritti (Vallecchi, 2006). Certo il regime non gradiva resoconti raffinati e precisi sulla gente del posto o peggio sulle faccende politiche e militari. Tanto da tacitare lo stesso Dino Buzzati, anche lui giornalista al fronte, e costringerlo a scrivere solo divertenti cronache di costume locale su scimmiette e vecchi indigeni, che peraltro sapeva fare in modo egregio, al posto di cronache vere, attente alla storia e al suo reale dipanarsi. Una intervista ad Amedeo di Savoia, duca d’Aosta, allora vice re d’Etiopia, gli fu anche censurata e poi gettata alle ortiche. La storia di Dino Buzzati giornalista in Africa è raccontata in un libro dell’università di Nanterre: il Diario di Dino Buzzati, in L’Africa di Buzzati di M. H. Caspar, Université Paris X, Nanterre appunto. Gli Italiani brava gente? Una rimozione storica ormai smascherata, ma c’è altro da raccontare Parlando di Africa coloniale italiana, Eritrea ed Etiopia per la precisione, i numerosi libri del giornalista e storico Angelo Del Boca costituiscono un passaggio obbligato che ha cambiato e rivoluzionato il modo di vedere e valutare il comportamento degli italiani come colonialisti. Angelo Del Boca (Gli italiani in Africa orientale, Mondadori, tre volumi) ha smontato, in anni di lavoro solerte, l’idea che gli italiani fossero “brava gente”, come si è creduto per molto tempo, ignorando le carneficine fatte dai fascisti, prima e dopo la guerra d’Etiopia, e l’uso per la prima volta di gas asfissianti e dell’iprite, il gas chimico, ai danni delle popolazioni civili e non solo dei soldati e utilizzato anche per inquinare l’ambiente che procacciava il pur misero cibo alle popolazioni locali. Basterebbe andarsi a rileggere le incisive e commoventi parole di denuncia contro i crimini di guerra di Mussolini e proclamate con forza nel 1935 dal Negus Hailé Selassié (negus d’Etiopia dal 1930 al 1936 e dal 1941 al 1974) alla presenza dei membri della Società della Nazioni a Ginevra (https://haileselassie.wordpress.com/). Lo stesso Indro Montanelli, che fece la guerra d’Etiopia, per anni negò l’uso dell’iprite, dovette poi ammettere di essersi sbagliato. Ma la pagina ancor più nera è quella degli eccidi di massa perpetrati per vendetta, dopo un attentato degli etiopi ad Addis Abeba, contro Rodolfo Graziani, vicerè d’Etiopia, il quale ordinò con il consenso di Mussolini di uccidere tutti i monaci di Debra Libanos, tra questi tutti gli indovini e i cantastorie dei quali l’Etiopia ha una lunga e antica tradizione. Graziani, assetato di sangue, ordinò alle camice nere di uccidere per giorni migliaia di ragazzi, rastrellando la città. Si discute ancora sulle cifre, ma ormai varie fonti parlano di almeno due, tremila vittime. Che dire degli italiani colonialisti? Dire colonialisti significa, a mio avviso, già pronunciare una parola che definisce da sola il peggior rapporto che si possa instaurare tra due popoli. Il più abbietto. Quello che mi interessa come scrittrice è, invece, porre l’attenzione sulle persone comuni di quel periodo storico, su coloro che lo hanno vissuto, nel bene e nel male, con tutte le sfaccettature che la vita comporta. Il bisogno di vivere e poi di sopravvivere quando arriva la guerra e i modi in cui lo si fa. Ho scelto – come sempre fanno gli scrittori - di raccontare delle storie, né più né meno, storie di italiani in colonia che si intrecciano tra loro e soprattutto con quelle degli indigeni-sudditi, ma l’angolatura è volutamente sempre quella italiana. In questo senso l’ultima ricerca storica sta facendo un ottimo lavoro di approfondimento che ho spesso utilizzato per questo mio romanzo. Giovani e meno giovani ricercatori come Nicholas Lucchetti, autore di Italico ingegno all’ombra dell’Union Jack – Breve storia degli italiani d’Eritrea sotto l’occupazione britannica mi hanno confortata nelle descrizioni dell’ultimo periodo. Come gli studi di Francesca Locatelli, visiting professor all’Università di Edimburgo, autrice del saggio La comunità italiana di Asmara negli Anni Trenta in L’Impero fascista. Italia ed Etiopia (1935-1941, Il Mulino. Uno sguardo d’insieme su passato e presente dell’Eritrea e di Asmara si può vedere nel documentario di Caterina Borelli, regista e produttrice indipendente, intitolato Asmara Eritrea del 2008, un viaggio attraverso le memorie dei suoi abitanti, con un ricco escursus storico e critico che va da prima della colonizzazione italiana sino ai tempi odierni (http://www.anonime.net/asmara/). L’arco di tempo che il mio romanzo percorre è quello degli anni Trenta poi durante la fine del colonialismo, nell’aprile del 1941, e lungo tutto il protettorato inglese, sino al 1951. Pochi anni, ma davvero densissimi di avvenimenti e avventure di ogni genere. Anni su cui si sarebbero potuti e si potrebbero ancora scrivere – ne sono convinta - molti altri racconti e romanzi. La grande e la piccola storia in quegli anni corre, corre veloce. In mezzo a molti accadimenti che ho perlustrato (a fianco c’è una scheda sintetica del romanzo), la storia si concentra sulla partenza da Treviso di un giovane veneto che parte per lavorare e sfuggire alla fame sua e della famiglia. Come lui, tanti altri italiani espatriarono (anche se al fascismo questo termine non piaceva ed era bandito), sognando il posto al sole promesso dal Duce. Gli italiani in colonia inventarono ogni genere di prodotto, con il canale di Suez chiuso, esprimendo il loro ingegno in mille modi. Da Asmara passarono artisti di fama, futuri imprenditori, commercianti. Dando alla città una atmosfera di italianità che merita di essere raccontata. Oltre a quegli italiani, che Nicola Labanca chiama in inglese i poor whites, cioè autisti, operai, artigiani di ogni genere, ma anche gente priva di arte e a caccia di avventura e fortuna, vi erano italiani più arditi e capaci di inventare qualunque cosa pur di vivere bene, tra questi anche molti architetti che, più liberi dalle strette del regime, hanno trasformato Asmara in un città dall’architettura modernista, unica al mondo. Come ha scritto qualche anno fa un giornalista inglese, Jeffrey Gettleman, capo dell’ufficio del New York Times per l’East Africa, Asmara è stata un modello di laboratorio dell’Art Deco, del razionalismo, del Novecento, del neo classico, del neo barocco e di altre avanguardie, che poterono esprimersi straordinariamente concentrate in quella città. I suoi cinema, il teatro, l’università, gli alberghi, la posta, i caffè, le pasticcerie, gli edifici privati, le piazze, i viali alberati, persino la Moschea, hanno dato alla città un sapore così italiano da risultare un mix quasi surreale, così perduto nell’altopiano e vicino alle capanne e agli hebdò del quartiere indigeno. Già perché la segregazione razziale che arrivò nel 1938 fu durissima. Gli indigeni ebbero i posti separati dai bianchi nei cinema e nei bus, era proibito loro entrare nei bar, potevano ricevere da bere solo stando fuori, da una finestrella separata veniva loro allungato un recipiente di latta. Il regime proibì ai cittadini italiani di convivere con un’indigena, pena una condanna a tre anni di carcere. La Polizia Africa Italiana perquisiva le case degli italiani per controllare che le cameriere non fossero divenute amanti. I figli eventualmente nati da queste unioni non potevano né essere riconosciuti, né adottati e tantomeno studiare. Non avevano, dunque, diritto di esistere e, qualora negassero il loro essere meticci, venivano dichiarati tali anche in mancanza di prove, solo sulla base dei tratti fisici. Ne conseguì un abbandono in massa di molti di loro. Prima del 1938 in pochi anni, forse mesi, Asmara era cresciuta a dismisura con più di settanta mila italiani e con tutte le necessità che la piccola Asmara non riusciva a soddisfare. Nulla di più interessante per l’ambientazione di un romanzo. Tra i molti italiani anche personaggi poi divenuti o già famosi, ne cito solo alcuni, tra questi, Renato Carosone nel che 1935 suonava il repertorio classico napoletano in un ristorante frequentato da camionisti a Massaua, Emma Grammatica, la “sorella Materassi”, Luigi Melotti e la sua birra ancora oggi bevuta in Africa, Guido De Nadai, detto il signor banana per le sue esportazioni di frutta dal Corno d’Africa. La musica è un’altra straordinaria protagonista di questo periodo. Le canzoni corrono lungo il mio romanzo con forza e ardore, sottolineando i sentimenti degli italiani. E non parliamo solo di Faccetta Nera (http://www.scudit.net/mdimmifaccetta.htm). Le canzoni hanno cadenzato eccezionalmente tutti gli anni Quaranta e Cinquanta. Nel 1939 l’Eiar, l’Ente Italiano Audizioni Radiofoniche, che dopo la guerra diventerà Rai, lanciò un concorso per conoscere i gusti degli italiani, ma poco dopo le canzonette furono usate come mezzo per far accettare al Paese l’imminente entrata in guerra, annunciata da Mussolini da piazza Venezia il 10 giugno del 1940. Alcune delle canzoni, amatissime dai nostri genitori o nonni, motivetti divenuti popolari, apparentemente utili per distrarsi e tirarsi su di morale, assunsero significati oltre le intenzioni degli autori. Come Le gocce cadono ma che fa del Trio Lescano (http://www.trio-lescano.it/), come Un’ora sola ti vorrei o Il tamburo della banda di Affori, Pippo non lo sa, la stessa Dove sta Zazzà? Critiche velate al fascismo e al Duce, critiche alla situazione difficile dovuta ad una guerra considerata inutile. Canzoni che poi, dopo il 1941, provenivano anche d’oltre Oceano, importate dagli inglesi, nuovi balli, nuovi ritmi come il boogie-woogie dei pianisti neri americani. Il nuovo corso, con la fine della colonia, apre nuove prospettive e accelera il desiderio di indipendenza degli eritrei; di questo bisogno storico nel mio romanzo se ne fa carico letterariamente un meticcio, cresciuto orgoglioso della sua educazione italiana, ma che con la fine del fascismo sente di dover rigettare, perché capisce che le sue uniche e vere radici sono in Africa e non altrove. L’Africa per lui, alla fine, tornerà ad essere solo nera.
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