ISIS Ma i bambini kamikaze non esistono Lettera aperta ai giornali
di Paola Pastacaldi, marzo 2014
Bambini kamikaze. L’ho sentito tante volte sputato dalla radio, dalla tivù con metodo ossessivo e anche con una dose di orrore che però non si posava sulla prima parola. Bambini kamikaze. Ascoltavo. Ma c’è qualcosa di storto, pensavo mentre ascoltavo la radio e la tivù per l’ennesima volta, in questi giorni maledetti di orrore, un orrore che non riguarda tanto e solo il presente, ma l’idea che questo sangue ci sta infilando sotto la pelle. Il futuro come sarà? Un orrore di uomini suicidi, di donne che vogliono far fuori scuole intere di bambini, che vogliono far fuori tutti quelli che non la pensano come loro, di gente ammazzata a migliaia come poveri, minuscoli insetti – come ha detto un africano, salvatosi dall’eccidio nigeriano –. E, si sa, gli insetti non valgono nulla. Proviamo un orrore nuovo per quegli atti terroristici che sino a poco tempo fa erano persino impensabili. L’orrore che il futuro davvero possa essere loro. Come ha scritto Houelbeck, nel suo romanzo, che venderà tantissimo, ma che ancora non abbiamo letto. Forse ne saremo pieni e nauseati, prima ancora di averlo comperato. La sua fantasia letteraria, più che legittima, aggiunge orrore a orrore. Poi ho capito da dove veniva quel disagio aggiuntivo. Era la parola stessa bambini e bambine kamikaze che mi faceva stare male e che mi faceva provare un malessere di strano. La velocità dell’informazione mi ha resa lenta, ho pensato. Ma alla fine ha prevalso l’umanità. Sì, l’intelligenza vera, sensibile, vigile sull’umanità, oltre la professione, oltre la necessità di conoscere più notizie possibili sull’orrore che si va dipanando. Ma questi bambini - mi sono gridata dentro d’impulso – non possono essere dei kamikaze. Qualcosa ha urlato dentro di me un “no” con tale ferocia che la mente ha quasi faticato ad accendere la ragione. Poi ho capito. Questi bambini sono l’ultimo anello di un sopruso che ormai non ha limiti. Va oltre l’umano. Questo dobbiamo dire al posto della parola kamikaze. Sono bambini soli, orfani, bambini rubati ai genitori, bambini dati via dai genitori per fame, bambini adescati con promesse, le più semplici, religiose o di fame o di lavoro, bambini che forse non hanno nessuno, bambini rapiti, bambini sequestrati, bambini abusati. Sempre comunque per caso, forse presi dalla strada. Bambini condannati come fossero insetti. Bambini condannati ad esplodere per uccidere! Bambini che non sanno nemmeno cosa significhi kamikaze. Che certamente non sanno nemmeno che accadrà loro. Convinti ad accettare qualcosa di buono all’apparenza. E poi fatti esplodere da lontano, dicono i cronisti con freddezza, perché hanno fretta. Bambini kamikaze. Dio mio! Bambini kamikaze? Ma i giornalisti lo sanno cosa sono i kamikaze? I giornalisti sì che lo sanno: non esistono bambini kamikaze. E allora? Allora chiedo ai giornalisti come cittadina di avere rispetto di queste morti infantili e di fare sì che le loro parole arrivino più lontano possibile. Di smetterla di chiamare questi bambini kamikaze e di spendere dentro ogni notizia due parole per dire che sono bambini soli, ancora una volta abusati, sempre perché poveri.